— Le credenze popolari! Oh! le credenze popolari non anno altro da fare che dare il gambetto al bon senso! Ed è vecchia come Matusalemme, la storia della guerra che il senso comune fa al bon senso. Lo dice anche il Manzoni là dove parla di peste, di untori, di monatti ed altre simili diavolerie. «Il bon senso c' era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.» — Del resto, in questo libriccino, non vi nasconderò le opinioni e le sentenze dei medici, antiche e moderne, sul valore igienico delle verdure, dei legumi e delle frutta. Se non accresceranno in voi la stima per questa, così detta, Scienza della Medicina e pe' suoi Sacerdoti, la colpa non datela a me.
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— Le credenze popolari! Oh! le credenze popolari non anno altro da fare che dare il gambetto al bon senso! Ed è vecchia come Matusalemme, la storia
Ateneo scrive, che era proibito a chi mangiava aglio di entrare nel tempio di Venere. Era proverbio, che chi ama il quieto vivere, non mangi nè aglio nè fava, intendendo l'aglio per la guerra, la fava per i negozi pubblici. Nel 1368 Alfonso di Castiglia aveva istituito un Ordine cavalleresco, i cui membri si obbligavano a non mangiarne o a star lontani dalla Corte, per un mese, in caso di infrazione alla regola. Ora quell'Ordine non esiste più, ma è del bon ton il disprezzato, e a darsi poi per non intesi ogni volta che il cuoco lo appone mascherato, per regola d'etichetta. Checche però se ne dica dagli schifiltosi, un po' d'aglio è necessario e dà sapore a molte salse e conce, ai brodi, alle carni, al salame, ecc., ed è sano. Esso aumenta l'appetito e facilita la digestione. Forse per le sue proprietà toniche, ad alcuni serve come di febbrifugo. È anti-epidemico. Il suo sugo, o il latte bollito col bulbo è vermifugo. Raspail lo suggerisce contro il cholera. Entra nella composizione dell'aceto dei quattro ladri.
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, ma è del bon ton il disprezzato, e a darsi poi per non intesi ogni volta che il cuoco lo appone mascherato, per regola d'etichetta. Checche però se ne
«Quand vous voudrez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le là. Le repos de la nuit concentre et lui donne un veloutè qui le rend meilleur. Le bon Dieu ne peut pas s'offenser de ce petit raffinement, car il est lui-même tout excellence.»
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«Quand vous voudrez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le là. Le repos de la nuit
Sauer-Kraut. — Tagliate a liste sottili le verze o gambusi, poneteli in un vaso, salandole bene per ogni strato e si comprimano con grosso peso lasciandole così per 24 ore almeno, indi levate e spremute bene, si mettono a cocere in casserola con bon sugo o brodo, e dopo mezz' ora di cottura, vi si aggiunga un po' d'aceto con qualche grano di ginepro e si termini lentamente la cottura che deve essere non meno di quattr' ore.
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lasciandole così per 24 ore almeno, indi levate e spremute bene, si mettono a cocere in casserola con bon sugo o brodo, e dopo mezz' ora di cottura, vi si
Crispino, medico valentissimo, scrisse un volume sulle virtù del cavolo, accomodandolo per medicina ad ogni infermità. In alcune città della Grecia il cavolo era in venerazione, perciò giuravasi sulla testa del cavolo. La più celebrata specie presso i Greci ed i Romani, era la verza nostra, detta appiana, benchè fossero conosciute e coltivate anche le altre specie. Nel bon tempo antico, i cavoli erano un contraveleno ai funghi velenosi, cotti con pepe davano molto latte alle balie e molta voce ai cantanti, il loro seme nel brodo di carne era un toccasana per tisici. Il cavolo, come le minestra dei nostri nonni, faceva diventar alti i ragazzi e la scuola di Salerno dice:
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appiana, benchè fossero conosciute e coltivate anche le altre specie. Nel bon tempo antico, i cavoli erano un contraveleno ai funghi velenosi, cotti
, cioè che desumono il nome dalla forma. Nel linguaggio dei fiori: Goffaggine. È pianta annale originaria dall'Oriente o meglio dalle Indie. Ama bon terreno a mezzodì, larghe lrrigazioni, i semi durano fino a 10 anni. Ad ottenere grossi frutti si svetta la pianta dopo fiorita. La semente
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, cioè che desumono il nome dalla forma. Nel linguaggio dei fiori: Goffaggine. È pianta annale originaria dall'Oriente o meglio dalle Indie. Ama bon
Sebbene il depravato gusto, o la bisogna Fan, che si mangi in villa la scalogna, Fuggir si deve come ria carogna, E lasciarla a chi suona la zampogna. Chi ne mangia, assai dorme e mal si sogna, Si lamenta del capo e de la rogna; Il dir ch'abbia virtude è una menzogna: Solo à di bon che rima con Bologna.
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. Chi ne mangia, assai dorme e mal si sogna, Si lamenta del capo e de la rogna; Il dir ch'abbia virtude è una menzogna: Solo à di bon che rima con
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della palma oriente, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America meridionale e di molte parti dell'Africa. È diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 chilogrammi di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Non dà frutti che dopo moltissimi anni. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche, i frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale. I migliori sono quelli d'Alessandria d'Egitto. Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne, colla fermentazione, un liquore inebbriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane, e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente. Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. Il calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma, lavorati, si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica chiamata delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. È questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Senofonte nel 2.° libro della Spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d' allora si candivano perchè i freschi eran fin d' allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca. Dei datteri si dice:
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freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert
Pianticella vivace, aromatica, originaria della Siria. Nel linguaggio dei fiori: Forza, robustezza. Cresce spontanea nei luoghi aprichi e soleggiati, ama terra grassa, esposizione calda, frequenti inaffiamenti. Si semina da febbraio a luglio, dà fiori gialli. Si coltiva come il sedano negli orti, è annuale e bisannuale, i semi durano 4 anni. La varietà selvatica è più forte. Il Finocchione è il finocchio dolce d'Italia, il romano. Il Foeniculum piperatum, o finocchio arancino, è raro fra noi, ma spontaneo e coltivato nelle regioni meridionali d'Italia. È celebre il finocchio di Faenza e di Porli. I teneri germogli, detti anche finocchini, si mangiano come erbaggi da tavola, crudi all'olio e pepe, cotti con burro, come il cardo. A Napoli e Sicilia i teneri germogli si mangiano nelle zuppe e minestre. Il seme detto anche erba bona, è droga di cucina e di pasticceria. Si adopera a dar sapore alle carni porcine allo spiedo, ai pesci fritti, alle salse, si fa bollire colle castagne. Serve alla preparazione dell'aquavita, dà bon alito, e in alcuni paesi lo mettono perfino col tabacco nella pipa. Onde il Varchi disse: Tu se' bono e fresco e secco, state e verno Gli è ben ingrato chi sue lodi tace.
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sapore alle carni porcine allo spiedo, ai pesci fritti, alle salse, si fa bollire colle castagne. Serve alla preparazione dell'aquavita, dà bon alito, e
I semi di tutti i grani danno, per mezzo del macinamento, una polvere che è la farina, la quale si separa dalla crusca, che è l'involucro del grano, per mezzo del frullone o del buratto. Le farine usuali che entrono nella cucina sono quelle di frumento, segale, orzo, frumentone, riso, alle quali va aggiunta la fecola di patata. (Vedi ciascuno di questi prodotti). La farina per conservarsi dev'essere di bon grano e sano, dev'essere asciutta, chiusa in luogo fresco d'estate e tepido d'inverno. Gioverà che sia bene compressa, o moverla di tanto in tanto. La farina stacciata si conserva meglio che quando è mescolata alla crusca, essendo questa soggetta ad inacidire. Dovendosi mescolare varie qualità di farina, lo si faccia all'atto, volta per volta. Se è passata per uno staccio sottile e fino, chiamasi fiore, per uno alquanto più largo, farina, indi il cruscatello detto rogiolo. Dell'uso culinario della farina dico a suo luogo. La macinazione del grano e la mescolanza delle farine è arte antichissima, presso tutti i popoli. Omettendo altre citazioni, ricordo Marziale, lib. 13, il quale amava le galline grasse:
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aggiunta la fecola di patata. (Vedi ciascuno di questi prodotti). La farina per conservarsi dev'essere di bon grano e sano, dev'essere asciutta
Questo non è il fiore educato nei giardini, il garofano diantus, ma un grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque e fatto indigeno nelle Indie orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc., venne chiamato garofano da noi, perchè à appunto il profumo di questo. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco carion, noce e phyllon, foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i fiorifrutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da settembre a febbraio, si fanno essiccare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche, ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar, da dove ne vengono importati in Europa circa 30.000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere sotto la pressione dell'unghia, si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi si condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi, e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi, si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri, d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani serviva anche a dare un bon alito alla bocca. Entra nella cucina a dar sapore ed aroma ai manicaretti, allo stufato, al manzo, al pesce, alla frutta — si adopera nella pasticceria, nella confezione del vino brulè.
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serviva anche a dare un bon alito alla bocca. Entra nella cucina a dar sapore ed aroma ai manicaretti, allo stufato, al manzo, al pesce, alla frutta
venta anche albero ramoso, spinosissimo. Vuole esposizione soleggiata e difesa, terreno buono, teme l'umidità, resiste al freddo. Si propaga per polloni, per innesto, vegeta lentamente. Mette le foglie ultimo di tutti, fiori piccoli, gialli, solitari, in giugno, frutti o bacche rosse della forma e grossezza dell'oliva, matura a tardo autunno. Conta alcune varietà. È originario della Siria, si rinviene anche spontaneo nelle siepi delle montagne calcaree di Val di Noto. Nel linguaggio delle piante: Sollievo. Il frutto, benchè più apprezzato della Lazzeruola, è poco utile, perchè da noi non matura abbastanza e però si mangia appassito. Il legno, assai duro, serve all'ebanista, al tornitore e piglia bon pulimento. Sesto Papinio, console sotto Augusto, fu quello che primo lo portò in Italia dall'Africa. Plinio lo chiama jujubas. La giuggiola è digeribile e può conservarsi secca. Se ne fanno decotti soavi e paste pettorali, ma questa è arte superiore. Il popolo che la vede e la mangia quasi sempre immatura dice per ironia: andare in broda di giuggiole.
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matura abbastanza e però si mangia appassito. Il legno, assai duro, serve all'ebanista, al tornitore e piglia bon pulimento. Sesto Papinio, console sotto
Il melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio addossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna, dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in giugno e luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di settembre perchè, aspettando più tardi, la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata, e à dato pure il nome al rosso violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato acquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro, che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre.
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riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato acquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto
. Nel Peloponeso, i cacciatori, di bon mattino, fregavano colle foglie di menta il muso ai cani, per eccitarne lo sternuto e render loro l'olfatto più acuto. La menta è stimolante, anti-convulsiva, antispasmodica. Fu adoperata contro i reumi, la gotta, la scabbia ed il cholera. Ecco il precetto della scuola di Salerno:
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. Nel Peloponeso, i cacciatori, di bon mattino, fregavano colle foglie di menta il muso ai cani, per eccitarne lo sternuto e render loro l'olfatto
Il noce fu sempre pianta divinatoria, l'albero delle streghe, dei sabbati e della mezzanotte nel medio evo. Gli antichi, dalla sua abbondante o scarsa fioritura, presagivano il futuro raccolto. (Vedi in Virgilio, Georg., Lib. I, v. 187 e seg.). Le noci si spargevano alle nozze come da noi ora i confetti per tripudio e bon augurio (Virgilio, Egl, 8, v. 29 e 30).
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confetti per tripudio e bon augurio (Virgilio, Egl, 8, v. 29 e 30).
(Ezech.). Di tale opinione è pure S. Gerolamo (vedi In Isaiam) dove pure ci dice che i cinque pani coi quali il Redentore saziò la turba, erano d'orzo. Lo stesso S. Gerolamo asserisce, aver visto in Siria un'eremita che visse trent'anni con orzo ed acqua sporca. Galeno ne scrisse lungamente in un libro tutto dedicato al decotto: De Phtisana hordacea. Il parroco bavarese Kneipp lo regala al prossimo come eccellente caffè. Che bon prossimo !
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libro tutto dedicato al decotto: De Phtisana hordacea. Il parroco bavarese Kneipp lo regala al prossimo come eccellente caffè. Che bon prossimo !
Al tempo di Galeno, erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato si dava alla cotogna il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
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Al tempo di Galeno, erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato si dava alla cotogna il privilegio di regalare figliuoli
Si conserva di più e riesce migliore, quando non sia colto a maturanza innoltrata. Il cogliere un melone a suo tempo non è abilità di tutti; da qui il nostro proverbio: De melon glie n'è pocch de bon. Se si coglie acerbo, non à sapore, se stramaturo, lo à perso. Nel coglierlo, si tagli un nodo sopra del frutto, non gli si sterpi la coda; il melone perde d'odore e traspira per
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il nostro proverbio: De melon glie n'è pocch de bon. Se si coglie acerbo, non à sapore, se stramaturo, lo à perso. Nel coglierlo, si tagli un nodo
quella parte. Vuolsi che cotto e lasciato riposare 24 ore, acquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Del seme generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà, tanto precoci, che tardive. Àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni, anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione; è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto, coi salumi, per frutta da dessert; se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca, si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue màndorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino, e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essiccate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e da famosa semata, la prediletta dei nostri nonni. In medicina, tali semi danno emulsioni emollienti e rinfrescanti. I Greci, lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni cholerose. In Francia, per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
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li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella
all'odore, perchè quest'ultima puzza tagliandola, e tramanda un odore disgustoso di sorcio. Tutta la pianta del prezzemolo à odore e sapore aromatico, rende i cibi più sani e più aggradevole eccita l'appetito e favorisce la digestione. Entra gradito ospite nelle minestre, nelle zuppe, pietanze, guazzetti e salse. Ercole, dopo aver ucciso il leone Nemeo, si cinse la tempia con una corona di prezzemolo, da qui la consuetudine d'incoronare i vincitori nei giuochi nemei. Plinio assicura che l'uso del prezzemolo dà bon odore al nostro corpo. À pure la proprietà di dissipare l'ubbriachezza e di aiutare l'immaginazione. I poeti si incoronavano di prezzemolo, onde Virgilio:
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vincitori nei giuochi nemei. Plinio assicura che l'uso del prezzemolo dà bon odore al nostro corpo. À pure la proprietà di dissipare l'ubbriachezza e di
Il rapunzolo o rapenzolo, è una radice erbacea bisannuale della grossezza del mignolo, perenne, indigena, bianca, fragile, carnosa e tenera. Dà fiori, da maggio a settembre, di un turchino pallido in pannocchie terminali: à seme minutissimo. Il suo nome dalla sua somiglianza colle rape. Nel linguaggio delle piante: Delizia campestre. I semi germinano per 5 anni. Si propaga meglio dividendo gli stelloni o la sua radice. Vuole terra leggera e alquanto sabbiosa, esposizione fresca e ombrosa. Cresce naturalmente intorno alle roccie, ai vecchi muri e nei prati di campagna. Codesta radice è mangereccia, saporita e di bon gusto, ad alcuni riesce un po' indigesta. E fiori e radici forniscono una delle più delicate insalate. Si usa molto in Toscana e massime a Firenze. Si mangia tanto cruda che cotta e anche fritta. Merita di essere coltivata negli orti per la sua bontà. Il raccolto si fa da gennaio a febbraio e si continua fino a che le piantine non emettano il fusto seminale. Coltivata diviene più grossa. A virtù alquanto tonica. Plinio la chiama Rapa sylvestre. I Francesi: Petite raiponce de Carème. Un giornale francese raccontava che Bèranger era ghiotto di questa radice e ch'era la delizia delle sue dinettes primaverili.
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mangereccia, saporita e di bon gusto, ad alcuni riesce un po' indigesta. E fiori e radici forniscono una delle più delicate insalate. Si usa molto in Toscana
Pianticella annuale gramignacea, aquatica, originaria della China e delle Indie Orientali, che dà il grano da tutti conosciuto. Il suo nome, riso, dal greco Oryza, derivato anch'esso dall'arabo Eruz. Dopo il frumento è l'alimento più sano e nutritivo. Il riso nasce, vegeta e matura nell'acqua, ed ama tutta la pompa del sole: non può vivere senz'acqua e senza sole. Nel linguaggio dei fiori: Ricchezza. Si coltiva dappertutto. Il riso per essere bono, dev'essere novo, ben mondato, ben netto, grosso, bianco, che non sappia di polvere nè d' altri odori. Il riso di più difficile cottura è il più saporito. Col riso si fa pane, il quale è assai bianco e di bon gusto, ma non s'inzuppa bagnandolo. Ma l'uso principale del riso è nella cucina. Nazioni intere se ne fanno il loro nutrimento quotidiano. Il Pilao dei Cinesi non è che il riso. Si coce da noi ogni giorno in minestra, al grasso, al magro, col burro, col latte, coll'olio. Si mescola con ogni sorta di legumi, erbaggi e carnami, se ne fanno torte, pasticci, frittelli, tortelli. Universalmente lo si fa cocere sino all'intero disfacimento, solo da noi si mangia, come si dice, al dente. Sarà forse per effetto di assuefazione, ma da noi lo si trova più saporito così. La cucina milanese, à dato al mondo col riso quel capolavoro che si chiama Risotto, il vero monopolio del quale, per quanto si sia fatto, non si è ancor tolto dalle mani dei veri Milanesi. Alcuni asseriscono che da noi il riso venne introdotto nel secolo XVI, ma è certo che in Italia invece era anticamente conosciuto. Plinio scrive che in Italia
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saporito. Col riso si fa pane, il quale è assai bianco e di bon gusto, ma non s'inzuppa bagnandolo. Ma l'uso principale del riso è nella cucina. Nazioni
Riso in cagnoni. — Fate cocere il riso nell'aqua salata e poi levatelo asciutto dall'aqua. Preparate intanto quattro acciughe, ridotte in pasta con poca cipolla, fate tostare con burro ed olio d'olivo. Indi unite il riso rimestandolo bene e conditelo con sale, pepe e noce moscata e bon formaggio trito di grana.
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poca cipolla, fate tostare con burro ed olio d'olivo. Indi unite il riso rimestandolo bene e conditelo con sale, pepe e noce moscata e bon formaggio
Salvia è dal latino salvare per le grandi virtù che possiede. Salvia salva, diceva un proverbio romano. È pianta erbacea perenne, indigena, originaria dell'Armenia, si moltiplica per getti, per divisione di radici ed anche per semi: questi germinano fino a tre anni. Brama terra sostanziosa ma piuttosto leggera, vuol essere di preferenza addossata al muro, ama il sole, porta fiori dal giugno al luglio. Nel linguaggio dei fiori: ambizione, stima. Ve ne sono più di 80 varietà, gran parte delle quali si distinguono pel loro grato odore e per l'eleganza. L'officinalis, che è quella comunemente conosciuta, si coltiva negli orti per la cucina e la medicina. La parte usata sono le foglie e le cime fiorite, à forte odore aromatico, sapore caldo amaro piccante. La salvia mescolata con cipolla in insalata eccita l'appetito, massime posta sopra le alici. Se ne veste ogni arrosto, in ispecial modo gli uccelletti e i pesci, ai quali dà bonissimo odore e sapore. Pesta e stemperata con aceto, mista con zucchero ed aglio fa una salsa non isgradevole. Le minestre di legumi (e più quella di ceci) prendono sapore dalla salvia. Involta nelle frittelle, massime se di farina di castagne, dicono sia ghiotta. Cotta con aceto, olio, zafferano e poco zuccaro fa un ottimo marinato per il pesce. Friggesi la salvia con olio, burro, strutto, se ne regalano tutti i fritti. La salvia sta bene per tutto, fuori che nei lessi, a' quali non s' addice per la sua amarezza. Attiva le funzioni digerenti e circolatorie, aumenta il calore animale, modifica l'influenza nervosa. La farmacia ne estrae un olio essenziale e ne fa una infusione della quale la medicina si serve ad eccitare i sudori e a rianimare le forze vitali, perchè la salvia è tenuta come un bon stimolante. Il decotto di salvia è giudicato volgarmente come un febbrifugo e in primavera come un depurativo del sangue. Gli antichi ne facevano molto uso. Tutti l'ànno lodata. Da Agrippa veniva chiamata herba nobilis, herba sacra. Era tanto comune il suo uso presso i latini che inventarono perfino il verbo salutare, dare una porzione di salvia, condire con la salvia. E la Salernitana si meraviglia come possa morire un uomo che abbia nel suo orto la salvia:
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si serve ad eccitare i sudori e a rianimare le forze vitali, perchè la salvia è tenuta come un bon stimolante. Il decotto di salvia è giudicato
Salsa di senape. — Stendete in un tondo 27 grammi di senape in polvere finissima, con due pizzichi di sale fino — versatevi sopra mezzo bicchiere di bon aceto, stemperate bene il tutto con un cucchiaio di legno, lasciate fermentare per 24 ore, poi raccoglietela in una salsiera da mettere in tavola.
Il re dei cuochi della cucina vegetariana
bon aceto, stemperate bene il tutto con un cucchiaio di legno, lasciate fermentare per 24 ore, poi raccoglietela in una salsiera da mettere in tavola.
Il Susino di macchia o Pruno selvatico (Prunus selvatica, spinosa, Druparia spinosa) comune nelle selve, macchie e siepi, dà fiori odorosi in marzo ed aprile, frutto nero violaceo in maturanza verso il settembre, di sapore acido aspro. La scorza del suo tronco e della radice contiene tannino e viene usata nelle arti alla concia delle pelli e a farne inchiostro, è astringente, febbrifuga. Le foglie pure sono astringenti. La sua aqua distillata à virtù deprimente quasi come il Lauro cereso, i bottoni e i fiori sono lassativi. Le drupe essendo aspre, danno bon aceto. Mature servono a colorire il sidro ed il vino, anzi a fabbricarne una specie che chiamasi piquette in Francia, Scheleckenwein in Germania; seccate al sole ed infuse in vero vino gli danno sapore austero. Colla distillazione somministrano un'aquavite abbastanza spiritosa, ed acconciandole con alcool, zuccaro e aromi se ne ottiene un grato rosolio.
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virtù deprimente quasi come il Lauro cereso, i bottoni e i fiori sono lassativi. Le drupe essendo aspre, danno bon aceto. Mature servono a colorire il
Il tartufo è un tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. Nel linguaggio delle piante: Tesoro. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma, concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon'ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui cammelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Questo squisito tubercolo compariva già fra le più prelibate ghiottonerie dei Faraoni. Le conquiste, le emigrazioni ed il commercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinarono la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris, che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, eh' egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un escremento della terra, vitium terrae. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gènègès, ossia figli della terra e degli Dei. Et faciunt lautas optata tonitrua coenas, cantava dei tartufi il Poeta d'Aquino. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di certe radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa, chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo duemila anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia, la notizia, e Micheli, pochi anni dopo, ne dava il disegno. Ammessi i semi, nacque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale fu sostenuta tra gli altri dal milanese Vittadini (Monographia tuberculorum, Milano, 1831). «Se volete dei tartufi, seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo del conte De Gasparin riassume l'esperienza di oltre sessantanni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre, fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers il fatto, allora paradossale, della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta a un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo, se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso, calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'llex, la Peduncolata, la Ruber (rovere). Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, il ginepro, la rosa, il pino silvestre, la pescia (Abies), per il pruno, il biancospino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico, vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione, come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri.
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conosciuto di bon'ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui cammelli e che è ancora, per gli Arabi
L'uva è il frutto della vitis fructifera, frutice perenne arrampicante, che può elevarsi a grande altezza e sostenersi, à foglia caduca, indigeno, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non matura bene al di là del 47° grado di latitudine, e la bianca del 49°, nè si eleva oltre i 600 metri. Vuole esposizione meridiana, teme l'umido soverchio, i continui venti, il freddo, le brine. Ama terreno sciolto, calcareo, argilloso, il terziario. Si propaga per seme, margotte, innesto, ma più comunemente per gemme. Numerose le sue varietà r essendo coltivata da molto tempo ed in condizioni svariatissime, sicchè lo stesso Virgilio ebbe a dire:
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, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non
Aceto aromatizzato da tavola. — 1.° Dragone 100 grammi — grani verdi di nasturzio 10 grammi — cipolla 10 grammi — pepe in grana 4 grammi — fiori di sambuco 4 grammi — cerfoglio 4 grammi — basilico 4 grammi — timo 1 gramma — foglie di lauro 1 gramma — mettete tutto in quattro litri di bon aceto. Lasciate macerare per un mese agitando — poi filtrate e conservate.
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sambuco 4 grammi — cerfoglio 4 grammi — basilico 4 grammi — timo 1 gramma — foglie di lauro 1 gramma — mettete tutto in quattro litri di bon aceto
Si fa dell'aceto al cressone, al sedano, alla menta. Per i due primi, ogni litro d'aceto, abbisognano 15 gr. di grani o semi di cressone o sedano, e vi si lasciano infusi per 10 giorni, scotendo ogni dì la bottiglia. Alla menta, si riempie un flacone a bocca larga di foglie di menta fresche e ben lavate. Vi si mette sopra, del bon aceto e si chiude. Dopo tre settimane d'infusione si filtra e si conserva in bottiglia ben chiusa. Così si può fare pure l'aceto di violette, che à di queste il dolce profumo e il grazioso colore. (Baronessa Staff).
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lavate. Vi si mette sopra, del bon aceto e si chiude. Dopo tre settimane d'infusione si filtra e si conserva in bottiglia ben chiusa. Così si può fare